di Michele Di Popolo
Alfonso Gatto nacque a Salerno il 17 luglio 1909 da una famiglia di marinai e piccoli armatori di origini calabresi. L’infanzia e l’adolescenza furono piuttosto travagliate. Compì i primi studi nella sua città, poi nel 1926 si iscrisse all’Università di Napoli che abbandonò qualche anno dopo, senza laurearsi, a causa di difficoltà economiche. Iniziò a lavorare come commesso, come istitutore di collegio, correttore di bozze ed infine divenne giornalista.
La sua fu una vita irrequieta, sempre alla ricerca d’altro, egli stesso dirà di abitare “case provvisorie”, “di avere sempre con sé una valigia pronta per partire”. Partire con la mente, con le parole, con i versi, dalla sua realtà. Gatto ha sognato, lottato, uomo di impeto e quiete. E così fu anche la sua vita. Mai vuota, piena di amore. È stato un poeta moderno, ma che conosceva le radici del passato. “I miei occhi mi lasciano partire e mi aspettano calmi con la sera”, scriveva. Durante una sua intervista spiegò il motivo del suo allontanamento da Salerno, città che ha sempre ricordato con tanto amore, ma che rappresentava nell’evolversi della sua personalità, un confine da superare.
Così egli esortava i giovani a volgere lo sguardo “oltre quelle montagne”, con spirito di avventura e coraggio. Cercò una vita diversa e riuscì a compierla. Nel suo errare per città e per lavori, storie ed esperienze, si immerse, come lui stesso lo definì in “un dolce e lungo error”. Una traiettoria esistenziale, la sua, che lo aiutò a costruire l’uomo che maturò negli anni. Intellettuale, partigiano, giornalista. Poeta, sopratutto, originale e sensibile, ma anche pittore. La sua poesia seppe farsi apprezzare, nonostante le sue umili origini da meridionale.
Vinse tutti i premi più importanti, tra questi vi sono i premi Savini (1939), St. Vincent (1950), Marzotto (1954) e Bagutta (1955, per l’opera “La forza degli occhi”). Pur conoscendo il merito, fu semplice nella sua conduzione della vita, una vita da studente più che da maestro. Nel 1936, a causa del dichiarato antifascismo, venne arrestato e trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore di Milano. Nel 1938 fondò a Firenze assieme allo scrittore Vasco Pratolini la rivista “Campo di Marte” che diventa la voce del più avanzato ermetismo. Creata per commissione dell’editore Vallecchi, la vita del periodico durò tuttavia un solo anno. Durante questi anni Gatto lavorò come collaboratore delle più innovatrici riviste e periodici di cultura letteraria (dall'”Italia Letteraria” alla “Rivista Letteratura” a “Circoli” a “Primato alla Ruota”).
Nel 1941 Gatto ricevette la nomina ad ordinario di Letteratura italiana per “chiara fama” presso il Liceo Artistico di Bologna. A partire dal 1943 entrò a far parte della Resistenza: le poesie scritte in questo periodo offrono una testimonianza efficace delle idee che animano la lotta di liberazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale Alfonso Gatto fu direttore di “Settimana” , poi co-direttore di “Milano-sera” ed inviato speciale de L’Unità, dove assunse una posizione di primo piano nella letteratura di ispirazione comunista. Nel 1951 lasciò clamorosamente e polemicamente il partito comunista. Oltre che poeta è anche scrittore di testi per l’infanzia.
Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla critica dell’arte e della pittura. Tra i suoi numerosi volumi di poesia ricordiamo: “Isola” (1932), “Morto ai paesi” (1937), “Il capo sulla neve” (1949), “La forza degli occhi” (1954), “Osteria flegrea” (1962), “La storia delle vittime” (1966), “Rime di viaggio per la terra dipinta” (1969). Il suo errare e conoscere gli ambienti intellettuali, milanesi, fiorentini, bolognesi, non gli fecero mai dimenticare le sue radici, la sua appartenenza.
Alfonso Gatto è stato anche Salerno, la sua Salerno. I suoi natali. Il mare. Le prime poesie. La memoria di quella Salerno antica, artigiana, popolare di cui oggi resta un ricordo. Gatto muore in un incidente d’auto a Orbetello (Grosseto) il giorno 8 marzo 1976. E’ sepolto nel cimitero di Salerno: sulla sua tomba è incisa una frase dell’amico Eugenio Montale: “Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesie furono un’unica testimonianza d’amore”.