«Il Vianema spiegato con gli stuzzicadenti»

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di Matteo Maiorano

«Ho chiamato mio figlio Giuseppe in memoria del nonno. So che Gipo ha scritto un pezzo di storia importante del sodalizio granata: a me però ha sempre detto di stare lontano dal mondo del calcio».

Erano gli anni ’40 e Giorgio Viani, figlio dell’allenatore che da Salerno ha raggiunto la panchina della Nazionale, invadeva il campo del “Vestuti” inconsapevole di quanto importante fu per la piazza salernitana la promozione raggiunta grazie al padre. Gipo, aveva un rapporto molto stretto con i calciatori, la tifoseria, e gli organi di stampa, cui confidava gli schemi di quello che era il “Vianema”, modulo che ha rivoluzionato il sistema tattico italiano, schema evoluto poi nel catenaccio. Oggi dedito al campo immobiliare, Giorgio racconta la propria avventura a Salerno al fianco di Gipo.

Da dove comincia la storia di suo padre?

«Ha allenato i granata dal ’46 al ’48. Gli anni precedenti fu a Siracusa, nel tempo della guerra. Quando ero piccolo raccontò che doveva essere arruolato nei paracadutisti ma, fortunatamente, non superò la visita medica. Tutti coloro che partirono verso la Russia perirono in guerra. Baraschi lo inviò a Siracusa e, in Sicilia, si fermò un paio d’anni. Giunse successivamente in Campania, prima a Benevento poi a Salerno».

Nella città d’Ippocrate ha ottenuto la definitiva consacrazione…

«Alloggiavamo presso l’hotel Roma. Nei mesi caldi andavamo a mare con tutta la famiglia. Fu un periodo particolarmente piacevole. Calcisticamente è ricordato per il Vianema, intuizione che inevitabilmente ha cambiato il modo di vedere il calcio. Lo mostrava ai giornalisti al tavolo del ristorante, spezzava gli stuzzicanti e li posizionava sul tavolo a mo’ di schema tattico. La stampa colloquiava con lui ai ristoranti, prima c’era più apertura da questo punto di vista. Davanti a un buon bicchiere di vino discutevano di calcio».

gipo

I calciatori che rapporto avevano con il mister?

«Allora vi erano maggior educazione e rispetto. Il giocatore non si sentiva così importante come oggi, che viene messo al centro dell’attenzione. Guadagnava molto meno e rigava dritto, seguendo ben volentieri chi sapesse guidarlo. Ivo Buzzegoli era il calciatore che aveva il rapporto più stretto con papà. Insieme andavano spesso a pescare: d’estate prendevano una barchetta a remi, andavano a largo e si concedevano delle ore con la canna in mano aspettando che i pesci abboccassero. Scherzavo con tutti i calciatori che facevano parte della Salernitana, posso assicurare che il gruppo era molto affiatato, come dimostra il risultato raggiunto. Il pubblico ha sempre voluto bene a Gipo, tanto da intitolare a lui una spiazzale antistante lo stadio Arechi. Ricordo l’anno della Serie A in cui siamo scesi in campo. C’era una confusione mista ad euforia, lacrime di gioia ovunque. L’ho vissuto sulla mia pelle».

Il gruppo della promozione andò in visita al Vaticano…

«Penso sia un’emozione unica per chiunque abbia a che fare con il Papa. Anni addietro andare in visita dal pontefice significava essere anche visti di buon occhio dalla sorte, protetti nell’anima. Oggi con le diverse etnie che compongono una squadra questo appuntamento ha perso l’importanza che rivestiva decenni fa. Allora andare dal Papa era difficile, bisognava attendere diversi mesi per essere ricevuto da Sua Santità».

Ha mai fatto una partitella con i calciatori che negli anni ha allenato suo padre?

«Erano tutti miei coetanei. Trapattoni, Rivera, Liedholm sono alcuni dei nomi che ho incontrato durante gli anni. Mio padre non voleva che io giocassi a calcio: già allora si accorse che il mondo del pallone era compromesso dall’economia e tanti altri fattori».

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