ANTINOMIE

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di Walter Di Munzio*

Ed ora ci troviamo all’ennesima antinomia (termine con cui si intende un rapporto di contraddizione, reale o apparente, rilevato fra due proposizioni elaborate dal pensiero), da una parte infatti abbiamo un gruppo di sostenitori del rigore nei comportamenti di prevenzione della epidemia in corso, che includono sia coloro che agiscono come responsabili fautori di comportamenti virtuosi finalizzati ad impedire il dilagare del contagio, ma in forme rispettose e codificate, senza trascendere in eccessi e minacce, come purtroppo avviene in alcune regioni; dall’altra coloro che sostengono, contro ogni evidenza, ma confidando in un sentimento di stanchezza diffusa che genera ribellione e che rende persino accettabili le fantasiose tesi di coloro che pensano che sia il tempo della fine della epidemia e che predicano il ripristino di ogni libertà di movimento, nel nome dei sacri principi dei diritti garantiti dalla Costituzione, dimenticando quello relativo alla salute e che implica il non essere infettati da un libero pensatore che se ne frega del resto della comunità. Per fortuna si tratta per ora di un fronte sempre ancora sparuto, ma molto aggressivo e con la prospettiva di reclutare sempre più adepti proprio di fronte al crescente rischio di una marcata recrudescenza della epidemia, che obbligherebbe a nuovi estesi lockdown anche nel nostro paese. Forme simili di contrapposizioni linguistiche diventano anche dispute politiche e si riscontrano quotidianamente nel linguaggio di alcuni leader, ma sono presenti da sempre tra il popolo più sprovveduto, ma pochi sanno che si basano su radicate convinzioni e persino su antichi convincimenti religiosi. Già nel Vecchio Testamento, infatti, Qohèlet ricordava le quattro antinomie che dovrebbero regolare il flusso della vita, ricordando agli uomini che c’è sempre da rispettare “un tempo di piantare e un tempo di sradicare, un tempo di gettare e un tempo di raccogliere, un tempo di piangere e un tempo di ridere”. Ma non è di questo tipo di contrapposizione di cui parliamo. Parliamo della contrapposizione tutta politica tra governisti e oppositori. Inconciliabili e senza possibilità di trovare punti di mediazione responsabili. Solo l’irrompere del COVID potrebbe consentirlo come ha già fatto con Berlusconi e come farà di nuovo con tanti italiani, se dovessero rinunciare al rigore comportamentale di cui sono stati sinora protagonisti. Alcune delle parole sentite in questi giorni contro avversari politici o persone che hanno idee diverse dalle nostre, termini come “pazzo”, “mongoloide”, “handicappato” o addirittura l’inquietante “macchina senza turbina”, non fanno onore a chi le pronuncia, soprattutto se usate allo scopo di identificare uno status o una problematica, fanno capire che è arrivato il momento di dire che le parole identificano sempre un’idea. Di conseguenza se cambiamo il modo di identificare un qualcosa, cambierà anche il modo in cui le persone percepiscono l’idea; in questo caso parliamo del concetto di disabilità e della opportunità di spostare invece l’attenzione sulla persona, considerata nella sua accezione migliore. La disabilità non è una malattia, è una “condizione” di vita che provoca sofferenza ed un disagio spesso accentuato da una ingiusta percezione negativa di sé, ancor più gravemente dal radicarsi di un pregiudizio sociale rispetto al proprio disagio. La disabilità non può mai essere considerata una colpa, semmai è una responsabilità comunitaria che ricade su tutti noi che la osserviamo pensando, stupidamente, che la nostra integrità sia un merito, una sorta di ricompensa in contrapposizione al disagio di chi soffre, che qualcosa di cattivo avrà pur fatto per meritare tale condanna. Il benessere di conseguenza, nel loro personale convincimento sarebbe la prova e la ricompensa per una pretesa superiorità morale o integrità comportamentale essendo prerogativa di chi non ha mai dovuto affrontare malattie invalidanti o gravi difficoltà fisiche e psicologiche. Occorre quindi eliminare tutte quelle parole che danno un’immagine negativa di chi vive sofferenza e dolore, determinando un ingiusto isolamento proprio di quella parte della popolazione che andrebbe invece protetta e supportata sia dal punto di vista della organizzazione dei servizi da mettere loro a disposizione e del calore umano e dell’attenzione ai bisogni della persona. Tutto ciò ci induce a condividere senza riserve la scelta che il nostro paese si accinge a fare, partiti permettendo, di attivare finalmente quella parte dei fondi messi a disposizione dall’Europa, anche se sotto forma di prestiti di lungo periodo ed a condizioni economiche molto favorevoli e sostenibili, concepiti per consentire ai paesi con gravi ritardi di recuperare il gap organizzativo per rilanciare il sistema sanitario e di supporto sociale. Per una grande operazione di restituzione in termini di servizi e di assistenza a chi più ha bisogno dell’attenzione della politica e delle imprese del territorio. Un mondo più giusto e con meno diseguaglianze sarebbe così un mondo in cui è più facile anche organizzare l’economia e uno sviluppo ordinato della produzione e della convivenza civile.

psichiatra e pubblicista*

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