Mario Collina punta sul sociale

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di Matteo Maiorano

Allenamenti, lavoro, determinazione. La storia di Dario Socci raccontata dal suo maestro Mario Collina. Insegnante, ormai in pensione, di kickboxing e pugilato a Salerno, Collina prepara i giovani campioni tra mille difficoltà. La mancanza di strutture in primis, poiché a Salerno, come spiega l’istruttore, c’è necessità di togliere i ragazzi dalla strada. Ora Collina sta cercando di aprire una palestra per fare sociale e formare i campioni del domani. Principi che hanno sempre rappresentato il motore dell’attività di Mario Collina: l’esigenza di fare qualcosa di concreto per aiutare le persone, strappare i ragazzi alla strada e di aggregarli all’interno delle palestre.

Come nasce la sua passione per il pugilato?

«Praticamente, ce l’ho da sempre. A quattordici anni ho cominciato ad alternare il lavoro e palestra. Non ho mai fatto incontri per diverse esigenze. Quello che mi è sempre interessato è imparare le varie tecniche di combattimento per poterle insegnare. Ho girato diverse palestre a Salerno per apprendere le diverse strategie di pugilato ma non mi sarei mai aspettato di aprire successivamente una palestra di pugilato». 

Una palestra diventata in poco tempo un punto di riferimento…

«Nel ’93 ho aperto la seconda struttura dedicata all’insegnamento del pugilato a Salerno, essendo già fruibile per l’attività la palestra del Vestuti, dove si esercitavano gli allievi della Pugilistica Salernitana. All’epoca ero uno sconosciuto del panorama del settore ma decisi di aprire uno spazio all’interno del centro sociale. Una decisione che ha rivoluzionato la vita della piccola comunità di Pastena».

In che modo ha cambiato la vita del quartiere?

«La scelta del centro di via Raffaele Cantarella era dettata da motivi sociali: in quegli anni il quartiere non era proprio una bella zona. Diversi ragazzi sembravano abbandonati al proprio destino. Gli insegnamenti erano del tutto gratuiti. All’epoca feci un patto con il presidente del centro sociale, in base al quale io mi sarei accollato la spesa per ripristinare la palestra, in cambio non avrei pagato acqua e luce. Abbiamo attratto nella nostra struttura parecchi giovani. Dalla voglia di fare sociale, dall’aggregazione, sono nati campioni».

Come ha conosciuto Socci?

«Dario è venuto in palestra nel 2005, all’età di quindici anni. La prima volta che l’ho visto mi sono subito reso conto del suo talento e delle sue potenzialità. Aveva una voglia incredibile di allenarsi e migliorarsi; quando un ragazzo è fatto in questo modo ci si può lavorare. Durante gli allenamenti era molto veloce, mi ha sempre fatto fare bellissime figure. Ha svolto con me quasi 70 match, non pochi. Ha combattuto con i più forti d’Italia senza mai tirarsi indietro. Anche se non ha mai vinto titoli italiani Dario ci è sempre andato molto vicino».

Cosa gli diceva prima di salire sul ring?

«Dario era sempre tranquillo, anche se prima di salire voleva mangiare. Lo chiamavo “lo strano”. La prima volta che partecipammo ad un torneo interregionale, la mattina andammo al bar e mangiò l’inverosimile. A mezzogiorno si saziò con una lasagna. Gli ricordai che doveva combattere di lì a qualche ora. E’ un tipo che aumentava il proprio peso corporeo ma dimagriva nel giro di qualche giorno. Incredibile. Nemmeno i dottori si capacitavano. Una volta a Roma mangiò la porchetta prima di salire sul ring. Parliamo di quindi minuti prima del combattimento. Ha un metabolismo velocissimo».

Il punto forte di Dario Socci?

«Si allena alla perfezione seguendo tutti i dettami tecnici. Quando era dilettante era più tecnico, combatteva con la testa mentre oggi è un “picchiatore”, sfrutta soprattutto la forza fisica. Adesso che è un giramondo, un professionista, ha appreso le varie tecniche di combattimento adattandole al proprio modo di fare boxe. Non avrebbe, dal mio punto di vista, lasciare però del tutto quella che era la sua tecnica. In America vogliono vedere lo spettacolo e lui ha combattuto diversi anni a New York. Dario nasce, sì, come tecnico ma il pugilato a stelle e strisce gli sta piacendo da matti. Dopo i primi successi gli dissi che aveva ampi margini di miglioramento, solo che all’ultimo mi disse che in Italia non gli piaceva combattere».

Vi sentite ancora oggi nonostante la distanza?

«Siamo sempre in contatto. Ci teniamo aggiornati su tutto. Lui mi dice sempre che è innamorato del suo lavoro. Ci siamo sentiti pochi giorni fa. E’ sempre felice, un tipo solare e scherzoso. Parliamo sempre e solo di strategie. Io gli dico sempre di non lasciare mai il “suo” pugilato, la tecnica appresa a Salerno. Per nessuna cosa al mondo. Lui, invece, diventato professionista, ha voluto fare un po’ di testa sua. Ha viaggiato ed integrato la propria tecnica con le esperienze fatte».

Quale gara, fatta da Dario, le è rimasta più impressa?

«Quella di cinque anni fa, al Centro sociale. Indossava un completo e salì sul ring. Era in occasione di un memorial, una gara amatoriale. Io ero giù e mi stavo occupando dei vari ragazzi che si sarebbero alternati sul quadrato di gioco. Lui salì con il vestito e lo tolse sul ring, improvvisamente. Si tolse la cravatta e tutto il resto e iniziò a combattere. Fu una scena unica. Quando organizzavano le gare a Roma preferivano lui anche ad atleti normalmente più preparati ed esperti proprio perché, oltre a garantire vittorie, era uno spettacolo vederlo combattere. Ha sempre fatto match incredibili».

Cosa augura a Dario Socci per il futuro?

«Di ottenere sempre quello che cerca, magari un grande titolo, che sono sicuro è la cosa che più vuole al momento. Però vorrei lo vincesse qui in Italia, a casa sua. Mi sembra giusto che venga conosciuto anche nei propri confini».

Perché il pugilato ha più difficoltà a diffondersi rispetto ad altri sport?

«Questioni economiche. Per gli incontri pagano molto meno rispetto al resto d’Europa. Non è possibile, per sei riprese, prendere qualche centinaia di euro».

E’ possibile, a Salerno, formare altri campioni dei suo calibro?

«Per farlo servono le palestre. Serve fare sociale: io punto a quello, poi da cosa nasce cosa. Togliere i ragazzi dalla strada è fondamentale. Vorrei gestire una palestra, perché purtroppo al Centro sociale mi hanno comunicato che la struttura non è idonea, in quanto mancano le uscite di sicurezza. Non è possibile, dopo 25 anni, perdere queste opportunità per il territorio. Mi contattano palestre private ma non voglio andare perché per me l’aggregazione, fare gruppo, conta più di ogni altra cosa. Non voglio i soldi, non m’interessano quelli. Con qualcuno ci stiamo organizzando al parco Mercatello per gli allenamenti, ma ovviamente non è la stessa cosa».
 

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