Strada racconta Strada: «Papà in fissa con le scenografie della Salernitana»

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di Matteo Maiorano

Tutti da piccoli, appoggiati con le braccia sui banchi di scuola, abbiamo guardato attraverso quella piccola finestra che affaccia sul cortile. Chi fuori si vedeva giocare tra le giostre, chi correre per il prato. E chi sognava di fare il calciatore. “Mamma non vuole, per te ha visto un futuro diverso, migliore” si ripete nelle case degli italiani, perché il Totonero è un ricordo lontano, ma certe cose si avvertono nell’aria ancor prima che accadano.

“Perché il calcio è cambiato”. Prima era un prodotto d’élite, rubava il pomeriggio degli inglesi che tra un’ora e l’altra di lavoro si dilettavano a insegnare regole su come fare gol. Sempre cose a modo loro, ma questa volta c’avevano visto lungo. E mentre ognuno cresceva, buttava bambole e macchinine, Filippo ha continuato a credere ai propri sogni. Spinto dalla passione di papà Pietro, il quale in una infuocata giornata di giugno del lontano ’94 si regalò l’eternità in uno degli stadi più caldi e contro una delle squadre più forti della vecchia serie C.

Duttile centrocampista cresciuto sotto i dettami tattici di mister Ancelotti, Pietro condusse la Bersagliera in B con l’ausilio di un gruppo formidabile, che quel giorno schiantò nella finale play-off la Juve Stabia al San Paolo. Tre anni più tardi nacque Filippo, al quale papà Pietro ha sempre raccontato aneddoti e curiosità sul triennio in maglia granata.

“La passione per il calcio è nata praticamente subito. Ero appena un bambino quando vedevo papà giocare nei migliori stadi d’Italia, inevitabile che la mia vita fosse convertita al calcio”. Filippo, oggi 22enne attaccante in forza all’Adrense, racconta l’iter che lo ha portato a dividersi tra studio e pallone: “Ho indossato la prima maglietta da calcio quando ero alle scuole elementari, presso il Paderno, squadra che rappresenta la mia città natale. Dalle scuole medie in poi ho fatto praticamente tutta la trafila delle giovanili del Brescia”.

Trovare il tempo di studiare e giocare non è stato semplice: “Nella vita l’istruzione è fondamentale, il calcio è un mondo che dovrebbe lavorare sotto questo aspetto: arrivati alla soglia dei 35/40 anni sei costretto ad appendere le scarpette al chiodo, bisogna trovare altre strade”.

Filippo ha quindi concentrato l’attenzione, per quanto possibile, anche sullo studio: “Sono iscritto al primo anno di scienze motorie: giocando ho sempre fatto un po’ fatica ad abbinare le due cose. Nelle scelte del percorso scolastico ha influito mia madre, che di professione fa l’insegnante: mi ha sempre spinto alla ricerca e alla scoperta, per lei la cultura è un valore prezioso. Ho scelto di iscrivermi all’Università anche perché voglio fare altro e scienze motorie è l’indirizzo che fa al caso mio”.

Filippo si è fatto conoscere in occasione dell’Universiade giocata all’Arechi. L’evento multidisciplinare ha infatti fatto tappa nel Principe degli stadi, il quale ha fatto da cornice agli eventi principali della rassegna: “Mio padre ha sempre parlato di Salerno come della piazza dove ha spiccato il volo, ha potuto affermarsi tra i professionisti. I granata sono stati il suo trampolino di lancio. E’ stato benissimo e la città lo ha sempre osannato. Mi ha fatto vedere tanti video e cassette dell’Arechi di 20 anni fa, delle scenografie: era un catino infernale, lo stadio ribolliva di passione. Per me giocare in questo impianto in occasione delle Universiadi è stato incredibile, ho avvertito parte della passione di un pubblico che, in casa, riesce realmente a spingerti verso qualsiasi traguardo”.

Un pizzico di rammarico per come andata contro il Giappone, ma lo sguardo volge al futuro: “Non immagino cosa possa riservarmi il domani, nel frattempo continuo a dare il massimo. Penso al presente e alla medaglia di bronzo conquistata all’Arechi, in attesa di conoscere la mia prossima destinazione”.

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