Vito Chimenti: «Il derby qui vale una stagione»

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di Matteo Maiorano

«Quella granata? La piazza più calda in cui ho giocato». Parole al miele quelle spese da Vito Chimenti, ex prima punta granata che a Salerno ha trascorso un segmento importante della sua carriera. Richiamato da Nicola Salerno dieci anni fa per ricoprire la carica di vice allenatore, l’attaccante pugliese ha testato sulla propria pelle l’amore dei tifosi nei suoi confronti, che al suo ritorno hanno ricoperto Chimenti di ringraziamenti conditi da rimpianti: quelli di un calcio lontano, che oggi il tecnico prova a comparare a quello degli anni ’70.
In che modo è avvenuto il suo approdo a Salerno?
«All’epoca non figuravano nei quadri dirigenziali tante persone come oggi. A chiamarmi fu l’allora presidente nonché farmacista Amerigo Vessa. Trovare l’accordo non fu difficile: il patron era una persona di un’umanità grandissima e riuscì a strappare l’ok dalla Lazio, che girò il mio cartellino a Salerno. Giunsi in prestito, formula che allora garantiva alle squadre di C le prestazioni di tanti calciatori giovani che militavano in A».
Che ambiente trovò al suo arrivo?
«I tifosi hanno sempre amato la propria squadra. Il Vestuti era un catino infuocato, la città aspettava il salto di categoria. Allora eravamo una squadra discreta, che con qualche dettaglio avrebbe potuto regalare molte gioie. Ricordo nitidamente i derby con la Casertana, soprattutto quello giocato al Pinto: ritengo siano stati il punto più alto e contemporaneamente più basso della mia annata in granata».
Cosa significa giocare un derby a Salerno?
«Questo tipo d’incontri fanno storia a sé. Il derby è sempre una partita sentitissima. Bisognava dare il massimo, la gente faceva sentire allo spogliatoio una carica emotiva impressionante. Ricordo bene la settimana di preparazione, ci allenavamo al Vestuti, la gente veniva in massa allo stadio. Purtroppo al Pinto andò male: perdemmo 3-0, furono giorni terribili. Ne nacque una forte contestazione, ma come diceva mister Recagni, era necessario continuare ad allenarsi e sgombrare la mente. Fortunatamente al ritorno andò meglio, vincemmo uno a zero e ricucimmo il piccolo strappo formatosi nel girone d’andata».
Quali erano le figure di riferimento di quello spogliatoio?
«Giuseppe Valsecchi, Bernardo Rogora, Giovanni Piccinini erano i punti inscindibili della squadra. Parliamo di calciatori molto esperti, i quali conoscevano la tifoseria, sapevano bene cosa c’era da aspettarsi. All’interno dello spogliatoio andavamo d’accordo, eravamo pochi e molto legati: non vi era allora una panchina lunga come oggi, bisognava lottare tutte le settimane».
Nel 2009 un gradito ritorno sulla panchina…
«Non mi sarei mai aspettato di tornare a Salerno, fu una notizia incredibile, non ero più nella pelle. Accettai subito l’invito di Nicola Salerno. Il direttore conosceva il mio valore, c’eravamo conosciuti in quel di Matera, laddove io ero alla mia prima esperienza da allenatore e lui, figlio del presidente, fu sorpreso in positivo dal mio modo di far giocare la squadra. A quasi 40 anni di distanza ho ritrovato un ambiente molto più maturo, vicino alla squadra nonostante la situazione difficile. L’esperienza fu incredibile: aver riportato 30mila spettatori sugli spalti aveva una valenza pari a quella di uno scudetto. La tifoseria che ho conosciuto a Salerno è quella con cui ho legato maggiormente, la più bella del sud, tra le più viscerali del panorama nazionale».

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