Carmine Della Pietra: «Salernitana, ecco cosa serve per andare in A»

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di Matteo Maiorano

Una pedina fondamentale per la rincorsa alla promozione. Quando arrivò a Salerno, Carmine Della Pietra aveva 25 anni e una voglia matta di giocare a calcio e divertirsi. Fame di gioco e di successi il binomio che ha portato il gruppo guidato da Ansaloni nel ’90 all’ambita promozione in serie B, a 23 anni di distanza dall’ultima apparizione. Elementi che, plasmati dall’esperienza di Agostino Di Bartolomei, hanno fatto in modo che si realizzasse il sogno di patron Soglia. Arrivato in punta di piedi a Salerno, Della Pietra ha subito compreso l’importanza di questa maglia.

Chi l’ha condotta all’ombra del Vestuti?

«Fu il presidente Peppino Soglia a chiamarmi. Curò l’intera fase del trasferimento: arrivai a Salerno per trattare, stavamo discutendo e improvvisamente chiuse la stanza. Mi disse: “Carmine Voglio che tu indossi questa maglia, firmo in bianco, metti la cifra che vuoi. Sei nato nella nostra stessa terra (Della Pietra è originario di Nola, ndr), giocare qui ti piacerà”. Avevo alcune richieste all’epoca, ma tra me e il presidente venne a crearsi un’empatia che mai prima di allora avevo avvertito. Firmai, sapendo che di fronte avevo un uomo eccezionale e arrivai a Salerno con immensa gioia e entusiasmo. Fu una questione di stimoli, non di soldi: poter riportare la Salernitana in B divenne in poco tempo l’unica cosa di cui mi interessava».
La sua testimonianza conferma quanto Soglia fosse legato alla piazza…
«Era una persona incredibile, avrebbe fatto sentire a suo agio anche uno sconosciuto. Andai a mangiare diverse volte a casa sua, parlava sempre della città e dei tifosi che chiedevano a gran voce la promozione. Era come un padre: spesso faceva irruzione nello spogliatoio, a modo suo trasmetteva l’entusiasmo della gente. Andare in B era il suo grande sogno e divenne anche il nostro in poco tempo».
L’anno di esordio tradì però le attese…

«La prima stagione è stata particolare, non riuscivamo a trovare la quadra. Fu una stagione transitoria, in cui andavano messe le basi e posti degli equilibri. Abbiamo cambiato quattro allenatori: ognuno di questi ha trasmesso a noi le proprie peculiarità. Antonio Pasinato fu probabilmente il più efficace, per il modo di interfacciarsi alla squadra dal punto di vista umano. Metteva a proprio agio il gruppo, se avevi problemi a livello tecnico tattico era sempre a tua disposizione, non ti lasciava solo neanche un secondo soprattutto fuori dal campo. Ma pretendeva che la domenica la squadra desse il massimo. Mi spiegò che la piazza metteva pressioni e che dovevamo cacciare fuori gli artigli, ogni settimana era una battaglia».
La promozione è poi arrivata nel campionato successivo: quale fu la chiave di volta?
«Contribuirono diversi fattori, uno di questi fu l’esperienza messa in campo da Di Bartolomei. Abbiamo anzitutto compreso l’importanza della squadra per la città e fatto uno sforzo in più dal punto di vista della dedizione. Il riferimento fu manco a dirlo Di Bartolomei, atleta e uomo eccezionale: riusciva a farsi carico delle pressioni ed era il collante tra gruppo e società. Nei momenti difficili fece valere la sua esperienza, diceva di allenarsi sempre al massimo e credere nei propri mezzi. Il giorno della promozione contro il Taranto non lo dimenticherò mai. In ogni singolo elemento di quello spogliatoio scorreva ormai sangue granata. Il tifoso ha ricambiato l’affetto, ha compreso quanto noi fossimo legati a questa maglia. Soglia dopo il triplice fischio mi disse: “Ho finalmente raggiunto il mio obiettivo”. Salerno era diventata la mia casa».
Sotto i dettami tattici di Giancarlo Ansaloni la Salernitana realizzò una striscia di risultati utili positivi ragguardevole…

«Ricordo bene il momento, la squadra viaggiava a ritmi di un’altra categoria: furono sedici le partite in cui andammo a punti. Per me non fu una novità: Ansaloni lo avevo conosciuto in una parentesi a Campobasso, ero consapevole delle sue potenzialità. Il mister stava sempre al campo, dalle prime luci del giorno a tarda sera. Un serio lavoratore, molto preparato: era meticoloso, preparava le partite in un certo modo, conosceva bene la categoria. Non dormiva la notte per ragionare sulla migliore formazione da schierare la domenica».
I granata oggi non riescono purtroppo a fare il definitivo salto di qualità: le rose allestite in questi anni sono state anche molto forti ma hanno fallito ripetutamente l’obiettivo…

«Per andare in A è necessario avere una società solida, credo che su questo la piazza possa stare tranquilla. Oggi il problema è che vincere un campionato è molto più difficile rispetto a diversi anni fa: giocano molti più stranieri e le dirigenze più abbienti possono far valere maggiormente il fattore economico. Bisogna creare il giusto mix tra calciatori giovani e più esperti, poi la buona sorte deve fare la sua parte. Ai calciatori dico di badare meno all’ingaggio e guardare con occhi diversi al rapporto con i tifosi».
Sarà a Salerno in occasione dei festeggiamenti per il centenario?

«Ho già avuto l’invito di diversi amici, sarò in città per festeggiate con i tifosi, esattamente come 19 anni fa. Sarà un’occasione importante per compattare anche l’ambiente».

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