Quel maledetto 28 aprile 1963

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di Matteo Maiorano

Daniele Belardinelli. Il suo nome è l’ultimo, in ordine di tempo, aggiunto alla già lunga lista di persone che per un pallone che rotola, o gli scontri ad esso collegati, hanno perso la vita. Elenco che si aprì tristemente il 28 aprile del 1963, quando sulle tribune dello stadio Vestuti sedeva Giuseppe Plaitano. L’uomo amava vedere la sua squadra del cuore da vicino presso il centralissimo stadio “Vestuti”, sito in piazza Casalbore, in memoria dello storico fondatore di Tuttosport.

Quel giorno la Salernitana ospitava la compagine lucana del Potenza, fino a quel momento padrona assoluta di un torneo che stava per entrare nel vivo. Difatti l’undici granata metteva in campo le proprie chance promozione, risicate rispetto ad una classifica che iniziava ad allungarsi inevitabilmente. Il primo tempo vide un parziale che sembrava indirizzare verso i colori rossoblu l’esito finale della sfida. Nella ripresa l’arbitro non assegnò un rigore per la formazione locale e il pubblico insorse invadendo il campo.

Le forze dell’ordine provarono a placare gli animi e partì un colpo di proiettile che raggiunse in pieno Giuseppe Plaitano, 48 anni, il quale lasciò 4 figli e moglie. Il tifoso fu la prima vittima negli stadi italiani: era il 1963. Le cose sarebbero dovute andare in maniera diversa negli anni successivi ma quello di Belardinelli è soltanto l’ultimo nome di un sistema che, a prescindere da vertici e norme, necessita di una totale revisione dal punto di vista morale, etico e sociale.

Stadi e spazi antistanti sembrano somigliare sempre più ad arene a cielo aperto, quando il calcio dovrebbe essere solo riconducibile ai concetti di passione, aggregazione, calore cittadino. Invece continua a dividere inesorabilmente, rappresentando sempre più lo specchio di un paese che non riesce, non da oggi, a trovare un equilibrio. 

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