Antonio Grimaldi, protagonista del teatro anticonvenzionale

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di Luana Izzo*

Un incontro particolare, oggi. Come in qualsiasi settore, anche nel teatro non bisogna chiudersi considerandosi realizzati, non bisogna aver paura del confronto ma cercarlo, e ogni volta che durante i laboratori di Primomito mi confronto con bambini, ragazzi, adulti, li invito sempre a guardarsi intorno, ad ammirare, studiare, confrontarsi con altre compagnie, e soprattutto ad andare a teatro, vivere quell’arte a 360 gradi, non limitarsi. Spesso racconto questi confronti, incontri, in questa rubrica e oggi ho il piacere di scambiare qualche chiacchiera con un artista, che potrebbe essere il poeta ermetico del teatro nostrano, Antonio Grimaldi, attore e regista della compagnia Il Grimaldello di Angri.

Antonio, partiamo subito dal tuo teatro. Ho avuto il piacere ultimamente di vederti in scena in una performance laboratoriale contemporanea dal titolo “Danzare alla vita”, dove attraverso un teatro corporeo, simbolico, fatto di pochissime parole, hai ricomposto lo scenario terribile delle migrazioni e dei tanti morti degli ultimi anni. Parlaci del tuo teatro…

«Il mio teatro… Ho avuto modo di approfondire durante la mia carriera diversi tipi forme teatrali ma ad un certo punto ho capito quale doveva essere la mia direzione. Lo definisco un teatro antiborghese. Non è un teatro barocco ma quello che mi affascina da tempo è lo scarno, è l’osso, la struttura. È qualcosa che definirei quasi animalesco, che si adatta agli spazi, che è messo in scena non per forza in teatro, inteso come struttura ovviamente, è un teatro fatto di molti simboli e di poche parole. Non amo testo prolissi, non amo parole gridate ma dette. Trovo terribile quando giovani attori gridano parole senza senso messegli in bocca da qualcuno. Il teatro secondo il mio punto di vista è soprattutto silenzio, è necessità, è raccontare non sé stessi: noi siamo il punto di partenza ma poi dobbiamo raccontare qualcosa di più ampio, senza confini».

Sicuramente è una forma di teatro particolare, la tua; hai mai avuto paura di non essere compreso?

«Come ti dicevo si tratta di un teatro antiborghese, anticonvenzionale. Mi rendo conto che a volte sia di difficile comprensione ma proprio per questo lo ritengo affascinante. E poi tutto ciò che sentiamo a capire prima o poi ritorna più forte di prima, è proprio la storia che ce lo insegna».

Come ti sei avvicinato al teatro?

«Fin da piccolo col teatro ho sempre giocato. A sei, sette anni nei cortili con i miei amici si giocava, ci si trasformava, avevo già l’idea della rappresentazione, guardare con occhi diversi. Ed è proprio in quella diversità, in quella rappresentazione che ho voluto ragionare sull’essere. Crescendo ho frequentato il liceo artistico, l’accademia delle belle arti e poi mi sono dedicato completamente al teatro. Non sono un accademico ma uno stagista. Ho girato tutt’Italia formandomi con tanti maestri come Emma Dante, Danio Manfredini, e tanti altri. Poi ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni di essi e girare tutto il mondo in tournée. Poi ho deciso che volevo sperimentare un’altra dimensione, raccogliere tutta questa esperienza accumulata per raccontare il mio teatro, quindi ho intrapreso la strada della regia, della direzione artistica fondando la mia compagna teatrale, il Grimaldello».

Come mai questo nome?

«Il grimaldello, come sai, è uno strumento che si usa per scassinare porte, aprire serrature. Così il teatro Grimaldello apre le sue porte al mondo, rompe gli schemi. Mi piace anche ricordare che per i testi mi affido a due belle penne del territorio Elvira Bonocore, che attualmente lavora al teatro Sanità a Napoli, e Alfonso Tramontano Guerritore. A loro chiedo sempre di consentire a me e agli attori di lavorare fra gli spazi vuoti delle parole. Due penne una diversa dall’altra ma molto belle entrambe».

*Officina teatrale Primomito

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