IL RACCONTO. “I miei occhi li ho lasciati in mezzo alla gente che faceva la fila per una razione di cibo”

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Il reporter salernitano Michele Amoruso racconta il conflitto dal 2 marzo, attraverso le sue emozionanti fotografie che fanno il giro dei social e delle testate giornalistiche: quasi 20 giorni muovendosi in lungo e in largo, tra la paura e l’angoscia, per fotografare la linea sottile tra la vita e la morte: “Non chiamiamola guerra, è una vera e propria invasione ai danni degli ucraini”

di Brigida Vicinanza

“Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro. Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato”. Non c’è verso, anzi forse sì. Perché guardando le foto di Michele Amoruso, fotoreporter della nostra terra (nato a Postiglione, Salerno), non c’è altra poesia che possa venire in mente se non quella di Ungaretti nella sua San Martino del Carso. Michele, dal 2 marzo è i “nostri” occhi sull’Ucraina con le sue foto che raccontano e dicono molto di più delle parole, su un ritorno indietro nel tempo, con un conflitto in atto. C’è la sofferenza nei volti per le perdite di amici e parenti, ci sono le “cadute” di chi crolla al pari delle mura dei palazzi. Le foto di Michele sono buie ma non spente: brillano di emozioni, tracciano il solco delle emozioni, penetrano nella nostra quotidianità come se un pezzo di questa vita, della nostra, fosse proprio lì a viaggiare tra le macerie di una guerra che nel 2022, con l’ausilio dei social diventa vicina e lontana allora stesso tempo, dentro e fuori contemporaneamente. Gli occhi di Michele Amoruso rievocano storia, sono presente e nascondono il futuro, sempre più incerto. All’interno delle case distrutte, ci sono le foto-ricordo, quasi a segnare il confine tra quello che è stato e quello che non è più, c’è il fumo degli incendi che avvolge in una nube nera ciò che rimane, ci sono brandelli di vita e occhi di persone in fila per prendere un treno, in fila per una porzione di cibo sotto una metropolitana diventata rifugio, porto (quasi) sicuro, cuscino per riposare un attimo, coperta per riscaldarsi. E questo nelle immagini di Amoruso è chiaro, limpido, entra dentro e difficilmente si dimentica: sta qui la sua bravura, tra la paura ed un’esperienza (che nonostante non sia nuova per il “nostro” collega, è sempre diversa, unica, coraggiosa) che segna lo sguardo, anche il suo così attento, così unico. Un diario di bordo e di viaggio, sul suo profilo instagram, che è un ponte fino in Ucraina. Con il passo spedito e pragmatico di chi guarda con il cuore e fotografa con una macchina, ma che lascia “gli occhi” un po’ ovunque tra l’allerta massima e il coraggio: “Sono partito dall’Italia il 2 marzo, mi sono spostato da Roma a Cracovia in volo – racconta Amoruso ripercorrendo una strada che lo ha portato fino al conflitto – da Cracovia al confine polacco-ucraino in bus e poi da lì abbiamo preso un treno che ci ha portato direttamente a Leopoli, lì sono stato due o tre giorni in cui ho documentato l’esodo di tutte le persone che stavano scappando verso l’Europa o quelle aree sicure, vicino ai confini europei. La situazione era allucinante già dall’inizio perché i treni che portavano da Leopoli in Europa erano attesi da centinaia di migliaia di persone, con famiglie spossate dalla stanchezza per le file lunghissime di attesa, tutto per avere un tentativo di salvezza. Da lì sono partito in treno per Dnipro con un viaggio durato 21 ore  – continua Amoruso –  nonostante il trasporto su binari sia il più sicuro perchè è quello che non prevede sabotaggi. Mi sono spostato su Dnipro perché era più facile raggiungere così diverse realtà da lì, è relativamente tranquillamente perché in una posizione strategica molto forte ma comunque ha subito attacchi come quello al calzaturificio. Mi sono spostato poi in un primo giorno con dei volontari che hanno fatto un recupero di persone che vivono nelle metropolitane di Karkhiv: famiglie evacuate che vengono prese con i bambini e messe sui treni per allontanarsi e qui ho fatto una delle foto che mi ha colpito di più”. Michele racconta così le emozioni provate in un semplice scatto: “C’erano persone in fila con piatti e scodelle in mano in attesa di una razione di cibo e in quella metro davvero ci ho lasciato gli occhi perché era una situazione assolutamente angosciante con aria tesa e disperata, c’era stanchezza laddove si raccolgono tutte quelle persone che hanno paura a stare nelle proprie case perché sono state bombardate o perché hanno bombardato un quartiere. Poi tornando a Dnipro mi sono mosso su Zaporižžja e lì ho fotografato l’arrivo dei convogli umanitari, provenienti dalla cittadina celebre per la centrale nucleare di cui tanto si è parlato. E lì un freddo incredibile, tutti hanno affrontato un viaggio estenuante, pieno di insidie perché ci sono i check point lungo la strada, le aree insicure e si deve procedere a passo lento. Loro trasportavano anziani e famiglie con bambini. Il giorno dopo sono andato con alcuni soldati ucraini a vedere la frontline, quella zona a contatto di fuoco con il “nemico” – ha sottolineato – siamo andati in questo villaggio che è proprio lì ed è stato bombardato dai russi che hanno tentato la conquista del territorio con alcuni mezzi e sono stati annientati: infatti ho avuto modo di fotografare anche i mezzi distrutti e abbandonati sulla strada, abbiamo visto edifici che sono stati oggetto di colpo principalmente di mortaio (perché cercano di aprirsi la strada così) e ho seguito un po’ questi militari nella loro giornata. E’ stato molto interessante perché i russi erano a meno di 2 chilometri da dove eravamo noi e a 4/5 chilometri dal villaggio – eravamo in compagnia di un graduato dell’esercito ucraino – e abbiamo dovuto fermare l’auto per indossare i nostri giubbotti antiproiettile e i caschi, con alcune istruzioni di sicurezza e poi abbiamo potuto proseguire, lì i militari presenti ci hanno scortati per vedere tutti i vari punti, con le postazioni di sicurezza, il controllo dei veicoli che ogni volta che ci passavano vicino noi dovevamo abbassarci, dovevamo stare in una specie di angolo di protezione contro un possibile tiro perché non puoi sapere in realtà in auto chi sta passando e loro si stavano organizzando con delle macchine civili per trasportare colpi di artiglieria da una parte all’altra e vengono utilizzate proprio queste per non destare sospetti”. Ma c’è anche chi – con caparbietà – non vuole lasciare andare i ricordi di una vita, la quotidianità, l’abitudine, un’esistenza nella propria casa: “Un uomo con la casa semi-distrutta mi ha colpito particolarmente, perché lui è ancora lì e sta resistendo, vuole rimanerci. E’ uno dei pochissimi rimasto nella zona e in quel gruppo di case dove è rimasto soltanto lui. E’ stato toccante anche solo guardarlo perché si vedeva che stava subendo una storia molto dura, in condizioni di povertà e angoscia”.

“Qui gli ucraini resistono e c’è chi non vuole lasciare la propria casa sventrata dalle bombe”

Ma il viaggio del fotogiornalista, continua: “Mi sono spostato su questa cittadini vicina al confine russo: qui proprio i russi stanno cercando di prenderla, non riuscendoci. Ma gli attacchi sono pesanti, ad esempio all’ufficio governativo completamente sventrato al suo interno, parte della zona bella della città completamente distrutto. Questa è una strategia ben precisa della Russia: secondo me non riuscendo a conquistare la città cerca di tenerla sotto uno stato di tensione costante, colpendo in modo imprevedibile punti sempre diversi. Questo è il modo di aggredire e sfiancare la resistenza non tanto militare ma civile degli ucraini, quella di creare una roulette costante e quotidiana in cui non sai mai cosa e chi verrà colpito”. Poi le emozioni iniziano a prendere forma nelle sue parole, con la paura e l’angoscia che prendono il sopravvento: “E’ una situazione particolare qui, perché c’è una musica di sottofondo costante dei colpi di mortaio, sia quelli che sparano i russi, sia quelle di risposta ucraine: ci sono rari momenti in cui non senti in sottofondo i colpi. Hanno colpito il Barabashovo Market (il 14esimo più grande al mondo), imponente, di dimensioni gigantesche: la colonna di fumo era chilometrica ed alta centinaia di metri, hanno distrutto tutto. Sono riuscito a fotografare l’intervento dei vigili del fuoco che hanno provato almeno a contenere il problema. Il giorno dopo sono tornato per fotografare le conseguenze: uno scenario spettrale e inquietante con persone che cercavano di salvare il salvabile, ad un certo punto un signore mi ha spiegato che aveva anticipato il suo amico titolare di un’attività per salvare (scavando a mano) un paio di chiavi inglesi. Economicamente qui il danno è inestimabile perché la città perde un’infrastruttura famosa nel mondo anche per i turisti. Durante le operazioni di spegnimento uno dei vigili è morto, colpito da un successivo attacco russo – sottolinea il fotografo – stamattina sono stato ai suoi funerali, nel piazzale della sua caserma con la famiglia disperata. Una scena cruda e particolare che solo a pensarci ho i brividi. Lo abbiamo poi accompagnato in questo enorme cimitero di Karkhiv e qui mentre tutti piangevano tra le preghiere, c’erano costantemente colpi di mortaio, così dopo 10 minuti a meno di mezzo chilometro è arrivato un colpo. Così sai che da un momento all’altro potresti essere colpito, stasera credo che dormirò nella metro e nei prossimi giorni potrei raggiungere la frontline di Karkhiv, estremamente pericolosa e dunque stiamo facendo tutte le valutazioni del caso…”. La paura la fa da padrona, ma non c’è tempo da perdere, bisogna muoversi verso altre zone, per documentare tutto il documentabile e portare questa guerra fuori da quei confini: “Ovviamente giriamo con le precauzioni del caso, ma a volte è meglio non farsi identificare come stampa perché i russi tendono principalmente a colpire gli organi di informazione per far capire che non si deve in alcun modo questa aggressione. La vera definizione è “invasione dell’Ucraina”, non guerra”. E mentre Michele racconta, a “rapire” è quel sottofondo. Non è musicale… ma sono colpi. Colpi che determinano i battiti del cuore che diventa tachicardico e affannato, che chiude gli occhi ma sente e asseconda soltanto un’emozione: la paura. 

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