La regia cinematografica al di là degli stereotipi holliwoodiani

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Raffaele Morrone, in arte Ivars Huxly, tra transmedialità del linguaggio e comunicazione

di Davide Bottiglieri

Di stereotipi nel mondo del cinema ce ne sono tanti: dalla figura dell’attore isterico al regista impegnato dietro la macchina da presa. A questi cliché si aggiungono quelli relativi ai linguaggi utilizzati nel mondo audiovisivo, alla possibilità di realizzare davvero lavori di qualità in solitaria, etc.

Insomma, chi davvero non è del mestiere, se ne va principalmente per luoghi comuni. A sfatare qualche mito ci pensa Raffaele Morrone, in arte Ivars Huxly, regista appassionato di libri e di scrittura. Scopre il teatro, cimentandosi nel ruolo di attore e, successivamente, regista. Durante gli anni universitari comincia a dedicarsi al mondo del video, prima come montatore, per poi configurarsi come autore e regista. Si fa le ossa nel campo dei videoclip e, parallelamente, matura esperienza realizzando cortometraggi e brevi documentari. Negli ultimi anni, infine, ha cominciato ad insegnare come esperto di linguaggio transmediale, diventando membro dei progetti di ricerca FARB dell’Università degli Studi di Salerno.

Dalla passione per la scrittura, alla scoperta del teatro, fino alla regia cinematografica. Si può dire che più che una vocazione, quella dell’essere regista, è l’ultima (per ora) tappa di un percorso?

Direi che hai perfettamente ragione. Non ho mai pensato di fare il regista, nessuna vocazione da bambino, nemmeno ho mai avuto la passione per la fotografia da cui più o meno tutti partono. Lo sono diventato quasi senza accorgermene durante gli anni universitari e formandomi successivamente con studi specifici e sperimentando sul campo. In più mi portavo dietro le esperienze pregresse con la scrittura ed il teatro che mi hanno fornito le basi per comprendere velocemente alcuni aspetti fondamentali come le fasi della narrazione o la direzione degli attori.

La componente più importante però presumo sia stata la fortuna di aver conosciuto persone con cui ho condiviso i primi passi e la futura maturazione e con le quali tuttora collaboro, su tutti il mio socio Elio Di Pace.

Sfatiamo qualche mito: il regista è davvero (solo) la persona seduta sulla sedia che urla “Motore, azione!”?

Quest’immagine è un cliché hollywoodiano, al pari del regista dietro la macchina da presa.
La regia è tutto, il regista è il grande burattinaio che guida tutte le maestranze durante tutte le fasi della realizzazione, deve conoscere gli aspetti produttivi e le dinamiche realizzative di tutti i comparti, così da prendere le decisioni più opportune affinché i diversi professionisti rendano al meglio. Inoltre, deve essere un ottimo psicologo a sostegno di tutta la troupe, reggere la pressione ed essere sempre sicuro di raggiungere il risultato nonché di cambiare in corsa per far fronte ad ogni imprevisto. Non è un caso se nei titoli di testa spesso si legge “un film di”.

Dai videoclip, ai cortometraggi, fino a documentari. Linguaggi diversi ma un unico filo conduttore: la comunicazione. Ci parli di questa esperienza?

Oggi tutto è comunicazione. Con l’avvento dei social la comunicazione è globale, costante e onnipresente. Oggi tutti comunicano con tutti, anche con chi non si conosce e, molte volte, anche inconsapevolmente. Ad esempio, ogni azione che compiamo sui Social è comunicazione, ogni foto, ogni post, ogni video, tutta comunicazione che si affida a linguaggi diversi. È un’esperienza comune a tutti, ma di cui non tutti hanno piena consapevolezza.

La prima cosa che mi sento di sottolineare è una banalità che spesso si dimentica: bisogna avere qualcosa da dire. Sembra assurdo sottolinearlo, ma in tanti urlano per richiamare l’attenzione e ben pochi hanno davvero qualcosa da esprimere.

La seconda è avere contezza del linguaggio che si sta utilizzando. Se non si conoscono le regole base per realizzare un’inquadratura, anche il panorama più bello risulterà solo una foto sghemba o una sceneggiatura pazzesca solo un Ed Wood movie.

La terza è mettersi nei panni degli altri. Per riuscire a comunicare efficacemente bisogna sempre preoccuparsi che il destinatario abbia tutti gli elementi per comprendere il messaggio. L’errore che si commette più di frequente è dare per scontato.

Se uno di questi presupposti viene a mancare, si corre il rischio di risultare incomprensibili e la comprensione è il requisito fondamentale affinché ci sia comunicazione.

Quale linguaggio audiovisivo senti a te più confacente e perché?

Sono nato con i videoclip e quelli li realizzerò sempre con estremo piacere. Ma i documentari, al di là del prodotto finale, sono esperienze di vita e conoscenza che nessun altro prodotto audiovisivo può regalare.

Ricopri il ruolo di “esperto di linguaggio transmediale” per progetti all’Università degli Studi di Salerno. Ci spieghi l’importanza della comprensione della transmedialità del linguaggio al giorno d’oggi?

Oggi siamo nel pieno della trasmedialità, che sembra un parolone, ma significa solo il passaggio (o forse è meglio dire la transcodifica) di un contenuto da un linguaggio ad un altro. Un film tratto da un romanzo, un racconto tratto da un quadro, un videoclip tratto da una poesia, gli esempi possono essere molteplici e di conseguenza molteplici sono le influenze sull’odierna offerta culturale. Sono operazioni che spesso possono portare a rivalutare artisti o a far emergere nuove personalità che dal confronto con un’opera già consolidata trovano il loro stile espressivo. Ma anche più consapevoli operazioni commerciali che cavalcano l’onda di un successo mediale e lo traspongono per la fruizione su un nuovo medium, l’esempio più classico possono essere i Cinecomics che portano al cinema il successo dei fumetti dei supereroi.

In un mondo che spinge sempre di più all’iper-specializzazione, forse alcuni settori dell’audiovisivo vanno in controtendenza, favorendo la nascita di one-man-band, professionisti che devono svolgere tutti i ruoli all’interno di un progetto. Qual è la tua posizione su questa figura e sulla troppo spesso assente possibilità (o volontà) da parte di committenti di pagare più professionisti per un lavoro audiovisivo.

Per esperienza, mi sento di affermare che in questo lavoro il one-man-band non può esistere, non è mai esistito e mai esisterà. Per quanto la tecnologia possa fare passi da gigante, una sola persona non può essere capace di gestire e tenere sotto controllo tutti gli aspetti della produzione di un contenuto audiovisivo. Ovviamente, con l’avvento degli smartphone super performanti, di computer e software alla portata di tutti, in molti sono convinti che il tutto sia semplice, ma un prodotto audiovisivo non è fatto solo della tecnologia che si ha a disposizione, provare per credere. E per quanto riguarda quel genere di committenti, questa cosa mi ha fatto sempre sorridere perché loro lo smartphone ce l’hanno sempre migliore del mio, quindi, perché non se lo fanno da soli?

Dal 3D fino ai primi esperimenti di film girati in verticale per favorirne la fruizione su smartphone: quali orizzonti sta raggiungendo il cinema?

Credo che per quanto il cinema possa esplorare ed adattarsi per assecondare le varie tendenze socioculturali, il cinema fatto di poltrona, silenzio e luci spente è l’unico che riesce ad esprimere al meglio le potenzialità del linguaggio filmico e per tale motivo non morirà mai.

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