Ruggi, ambulatori chiusi e pochi servizi. Cittadino: “E’ un ospedale muto”

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di Martina Masullo

La responsabile di Cittadinanza Attiva – Tribunale del Malato: “Quello che manca è prima di tutto trasparenza e partecipazione, è evidente che manca una gestione unitaria della struttura che dia un’anima all’ospedale e risposte ai bisogni dei cittadini.Non c’è una sinergia con l’Asl e con le altre aziende ospedaliere. E tutto ciò che accade tra i corridoi del Ruggi sembra essere mosso da una costante spinta verso la sanità accreditata”.

Attraversare i corridoi dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno può diventare un’esperienza che va oltre l’immaginario. Ci si aspetta di trovarsi in un ambiente asettico – e quindi per forza di cose pulito – e invece ci si ritrova a camminare tra l’immondizia. Si ha bisogno di usare il bagno prima di una visita, ma lo scarico non c’è e il lavandino non funziona. Le sedie in sala d’aspetto sono sradicate e le scale sporche e inavvicinabili. La qualità del cibo bassa e gli ambulatori per i pazienti non ricoverati sono quasi tutti chiusi. Avrebbe tutte le carte in regola per rap- presentare un’eccellenza territoriale, eppure l’ospedale di via San Leonardo di Salerno rimane una struttura pubblica lasciata a metà, non come le innumerevoli incompiute salernitane, ma (forse) peggio: un luogo a cui tantissimi pazienti devo- no per forza di cose affidarsi, eppure spesso si ritrovano di fronte a muri insormontabili e limiti evidenti. Ogni giorno, sono tante le storie di pazienti ricoverati che con foto o racconti forniscono un’immagine del nostro ospedale non proprio splendente. E dopo il Covid la situazione sta degenerando. Sì, per- ché con la scusa del primo lockdown molti ambulatori sono stati chiusi e ora – a distanza di due anni – non vengono ancora ripristinati. Quello di radiologia, ad esempio, per velocizzare i tempi delle diagnosi di tumori particolarmente aggressivi come quelli ai polmoni. Ogni azienda, secondo regolamento, deve avere degli ambulatori di secondo e terzo li- vello. Eppure, sembra che questi ambulatori – che non sarebbero neanche troppo costosi da ripristinare – lascino ampio spazio alle visite ambulatoriali private, quindi a pagamento. “Quello che manca – ha raccontato Margaret Cittadino, da tempo impegnata in prima persona nella battaglia per una sanità pubblica a misura d’uomo– è prima di tutto trasparenza e partecipazione, è evidente che manca una gestione unitaria della struttura che dia un’anima all’ospedale e risposte ai bisogni dei cittadini”. È un ospedale muto il Ruggi. Sì, perché sembra mancare qualsiasi tipo di rapporto e comunicazione con le strutture territoriali. Non c’è una sinergia con l’ASL e con le altre aziende ospedaliere. E tutto ciò che accade tra i corridoi del Ruggi sembra essere mosso da una costante spinta verso la sanità accreditata. Ci sono tanti piccoli controsensi, tanti piccoli disagi – che per chi li vive tanto piccoli non sono – che non sarebbero neanche difficili da risolvere. Se solo ci fosse la volontà di farlo. “Come Tribunale per i Diritti del Malato e associazione Cittadinanzattiva – ha continuato la Cittadino – ci siamo battuti per riaprire il laboratorio di analisi del San Leonardo perché con la scusa del primo lockdown era stato chiuso e mai riaperto, nonostante le circolari prevedessero di ripristinare tutte le funzioni. Dopo la presa di posizione del Presidente dell’Ordine nei me- dici Giovanni D’Angelo siamo riusciti a farlo riaprire sette giorni prima rispetto a quelli privati”. Un piccolo risultato, ma pur sempre un risultato. Per tante altre storie di sanità pubblica, invece, la vicenda è ancora aperta. Le questioni sono molte e tutte ab- bastanza spinose. Per quanto riguarda i tumori, ad esempio, e la normativa per il recupero delle liste d’attesa: l’ospedale ha ricevuto i soldi, ma non esiste ancora nessun progetto. Oppure ancora, c’è la questione di alcune donne operate di tumore al seno alle quali – durante l’intervento – era stato inserito un port, ovvero una membrana di gomma all’interno della quale può essere inserito l’ago per agevolare le cure successive. Oggi, sette di queste donne – a distanza di anni dall’intervento e dalle cure – vorrebbero rimuovere il port, ma non possono farlo all’ospedale. “Dopo vari tentativi – ha raccontato la Cittadino – siamo riusciti a trovare un chirurgo, l’anestesista e il caposala però non si procede perché non c’è chi coordina. L’azienda dice che è compito delle ASL territoriali rimuovere il port, ma non è vero: è il completamento dell’intervento iniziato all’ospedale”. Il tumore al seno colpisce il 40% delle donne e ci sono ottime possibilità di sopravvivenza se si agisce in tempo. Al Ruggi, attualmente, le sedute al Breast Unit sono state ridotte ad una a settimana. Eppure, non si può dire che i fondi l’azienda ospedaliera salernitana non li abbia ottenuti: 34 milioni di euro esauriti in pochissimo tempo e traghettati verso la sanità privata. Perché? Questa è la domanda che addetti ai lavori e cittadini dovrebbero farsi. E qualche risposta dovrebbe arrivare dai vertici del- l’azienda, sempre più introvabili e invisibili.

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