“Un nuovo orizzonte per la parità di genere”

0
158

di Fabio Croce

La penna di Federica Passarella, freelance di The Vision e altre riviste online, non è mai banale. Ha spunti interessanti e regala spesso nuove chiavi di lettura e di riflessione. Da sempre sensibile sulle tematiche di genere e sull’emancipazione femminile in ogni angolo del mondo, si sofferma in quest’intervista sulla pesante situazione in cui versano le donne in Palestina e nel Medio Oriente, rimarcando e sottolineando le cause, le leggerezze e le arroganze occidentali. Un nuovo femminismo, secondo Passarella, non può essere di parte, ma trasversale e intersezionale; unire fiumi carsici in un unico e robusto corso d’acqua.

La pesante situazione palestinese restituisce una nuova centralità alla questione femminile. Le donne, come lei ha spesso rimarcato, subiscono una doppia sopraffazione: quella patriarcale e quella militare. In un contesto così difficile e compromesso, può esserci un nuovo orizzonte per una parità di genere o, almeno, per una nuova stagione di diritti delle donne?

Purtroppo, sappiamo che in tutte le guerre, non solo in quella attualmente in corso fra Israele e Palestina, sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto. Sebbene siano poche le nazioni che infatti prevedono per loro la leva obbligatoria, e siano generalmente lontane dalle linee di combattimento, le donne subiscono comunque tutto il peso dei conflitti, sia durante (come i bambini e gli anziani sono fra le prime testimoni della distruzione di case e di intere città) che dopo, in quanto vittime della povertà che inevitabilmente ne consegue. Inoltre, è spesso il loro corpo stesso a farsi “trincea” venendo annientato e violato, trattato come merce di scambio, è triste, ma di stupri di massa utilizzati come arma di guerra la storia ne è piena.

Detto questo, rispetto alla “nuova centralità” assunta dalla questione, è importante separare la questione femminile in Palestina dalla propaganda che ne viene fatta. Il fatto che proprio nelle ultime settimane la condizione delle donne palestinesi sia salita agli onori della cronaca, e continui ad essere utilizzata a fini propagandistici su diversi organi di stampa, dovrebbe farci riflettere. Dovremmo interrogarci sul perché proprio adesso ci si faccia portavoce dei diritti delle donne palestinesi e soprattutto sul perché, ci ritroviamo a parlare di come vivono le donne negli altri paesi, soltanto quando vivono in Stati che sono in conflitto con nostri alleati o in guerra con gli Stati ai quali vendiamo armamenti per ingenti somme economiche.

Questo lo dico soprattutto perché siamo reduci della giornata del 25 Novembre, quella per l’eliminazione della violenza contro le donne, a seguito della quale molti, fra cui la Ministra Roccella, hanno tenuto a chiedere alle donne che manifestavano, e che chiedevano anche la fine del genocidio in Palestina, di condannare le violenze perpetrate da Hamas ai danni delle donne israeliane, sottolineando la contraddizione di sostenere chi non rispetta i diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+ nonostante, trattandosi appunto della giornata internazionale contro le violenza sulle donne, si stesse manifestando contro la violenza su tutte le donne, e quindi a prescindere dalla nazionalità.

Trovo sbagliato e deleterio far coincidere Hamas con l’intero popolo palestinese, e credo che non sia possibile presentare, di contro, Israele come stato difensore dei diritti delle donne e della comunità LGBTQUIA+ in quanto, oltre ad essere del tutto irrilevante o comunque il minimo sindacale per uno stato che si è autoproclamato l’unica democrazia del Medio Oriente, ma soprattutto perché, se le palestinesi sono più discriminate e più vittime che in altri luoghi, è anche a causa di Israele. Come lei stesso ha detto, le donne in Palestina non subiscono soltanto le discriminazioni di una società fortemente patriarcale, ma anche della militarizzazione e dell’occupazione israeliana. Da quando la Palestina è stata occupata, lo stato di oppressione costante in cui la popolazione è costretta a vivere da decenni impedisce l’evolversi dei più basilari diritti civili e questo è ovvio che incida negativamente anche sul cammino verso l’emancipazione delle donne. Quindi, che la misoginia esista nella società palestinese è innegabile, ma pensare che Israele rappresenti la salvezza da questa misoginia, piuttosto che incarnarne in parte una delle radici, è totalmente irrealistico.   
 
Una cosa che ci tengo a ribaltare è proprio questa narrazione (occidentale perlopiù) che vuole queste donne solamente succubi e vittime. Infatti, dal momento che si sente spesso parlare solo della condizione di subalternità in cui vivono le donne nei Paesi islamici, si finisce per ignorare che ad esempio, proprio in Palestina, le donne hanno cominciato a ribellarsi tanto tempo fa, assumendo un ruolo chiave nella lotta per la rivendicazione della loro terra. Le palestinesi facevano parte dell’organizzazione clandestina panarabista Al-Ard (“la terra”) che si batteva per il raggiungimento dell’uguaglianza di tutti gli abitanti di Israele e nel 1965 hanno fondato l’Unione generale delle Donne Palestinesi. In generale, queste hanno costruito il proprio attivismo componendo insieme lotte solo apparentemente separate: quella contro il patriarcato e quella contro l’occupazione. Pertanto, da questo punto di vista posso essere considerate come una genealogia di donne in lotta che, spinte in larga misura dallo stato di assedio dell’occupazione israeliana e, nonostante vivano una condizione quasi ancestrale di subalternità, non hanno mai smesso di rivendicare libertà e diritti. 

Per concludere, credo che, se siamo tornati a parlare di guerra e di donne in questi giorni, c’è anche un altro motivo, ed è perché il discorso non si esaurisce e riduce soltanto al fatto che queste subiscono una doppia violenza nei conflitti. Si tratta piuttosto di un concetto che riguarda e che ha a che fare con il dominio e l’esercizio della forza: il patriarcato e il colonialismo hanno alla base la stessa idea di appropriazione, che può riguardare un corpo, ma che può anche riguardare l’occupazione illegittima di un territorio. Il femminismo, almeno quello che stiamo vivendo oggi, fra i vari femminismi, è intersezionale, mette cioè in collegamento diverse oppressioni e le considera nel loro insieme. L’obiettivo finale non si limita solo alla decostruzione del sistema patriarcale, ma di tutti i sistemi di oppressione; interessarsi solo a una delle due questioni, pensando che l’altra non riguardi o che sia meno rilevante, significa rendersi complici di quel discorso che le rende possibili e le legittima entrambe.

In merito all’ultima parte della domanda, credo che attualmente sia molto difficile parlare di un nuovo orizzonte per la parità di genere, perché attualmente sembra difficile anche soltanto immaginare la pace e la fine del conflitto, che ovviamente mi auguro avvenga nel più breve tempo possibile.

Dal ritiro del presidio americano in Afghanistan, il movimento femminile, tra innumerevoli difficoltà, è l’unico baluardo al regime talebano. Può essere un modello anche per altre realtà arabo – musulmane?

Come per la Palestina, dopo l’abbandono degli USA e la riconquista talebana dell’Afghanistan, anche qui si sono fatte narrazioni distorte e paternaliste sulle donne afghane, con una prospettiva quasi e unicamente occidentale e attraverso una lente che è stata quasi e unicamente solo quella della questione femminile; un escamotage che è servito ad occultare le malefatte e soprattutto il ruolo che hanno avuto le politiche neocoloniali occidentali. È facile, infatti, scaricare tutta la responsabilità di quello che accadrà sul femminismo nel momento in cui effettivamente rappresenta l’ultimo baluardo al regime talebano, ma di quale femminismo parliamo e soprattutto, come si è giunti a questa situazione?

Dopo il 2001, ovvero quando tutti i paesi occidentali hanno cominciato a focalizzarsi sulla condizione delle donne afghane, al fine di giustificare e legittimare l’ intervento militare molte esponenti del femminismo bianco e liberal americano hanno sostenuto l’invasione di quelle terre al grido di “liberiamo le donne afghane” ma il femminismo esisteva già anche in Afghanistan e le donne afghane non hanno mai chiesto o pensato di chiedere l’aiuto di Hillary Clinton, perché, per l’appunto, l’emancipazione non è qualcosa che può essere calata dall’alto e di sicuro non spetta ad una ristretta cerchia di ricche donne bianche, occidentali e privilegiate di decidere come debbano emanciparsi le donne degli altri paesi.

Non so se il movimento femminile afghano possa essere un modello anche per altre realtà arabe-musulmane, quello che mi auguro io è che il femminismo (non quello imposto dall’alto), ma tutti quelli locali di ogni luogo e Stato, possano avere un ruolo importante nella costruzione di nuovi modelli politici e sociali.

In tante realtà mediorientali, alle donne sono impediti i diritti più elementari? Può esserci, in tal senso, un ruolo del mondo occidentale?

Non credo che l’occidente debba avere per forza un ruolo in quello che accade nel mondo e, soprattutto, non credo che il modello occidentale sia un modello da continuare ad esportare. È un approccio che non mi piace.

Spesso quando anche in Italia parliamo di donne e mondo arabo ci sentiamo sempre in dovere di impartire lezioni e tracciare la strada per gli altri dal piedistallo che ci siamo costruiti da soli. Come si è visto, spesso ci arroghiamo il diritto di giudicare e di agire in contesti e situazioni che non conosciamo e soprattutto senza considerare minimamente che molte tragedie, in Palestina come in Afghanistan e in altre terre colonizzate, sono anche la conseguenza, diretta o indiretta, del nostro intervento e della nostra violenza.
 
Per tornare alla domanda e ricollegandomi a quanto detto prima sulle donne afghane, durante l’occupazione militare americana, queste hanno comunque continuato a subire violenze e ad essere discriminate. Indubbiamente, hanno beneficiato di alcuni diritti, ma il risultato di quell’ingerenza oggi è sotto ai nostri occhi. Dal ritiro delle truppe americane e il ritorno dei Talebani, il paese sta attraversando una crisi umanitaria aggravata, in cui la popolazione femminile (circa la metà) è esclusa da ogni forma di vita sociale. I diritti e il progresso non possono essere imposti dall’alto, anche in virtù di questo credo che probabilmente potremmo raggiungere un migliore risultato se la smettessimo e piuttosto rinunciassimo per sempre ad intrometterci esportando la nostra democrazia e, all’occorrenza, anche il nostro femminismo.

Non si può lottare per i diritti delle donne arabe o musulmane in maniera selettiva e solo quando la narrativa combacia con i valori occidentali e se può esserci un ruolo dell’occidente, almeno dal punto di vista del femminismo, credo debba essere quello di essere al fianco e di supporto ai femminismi locali fornendo eventualmente alle donne gli strumenti per immaginare e costruire il paese che vogliono, lasciando a loro la scelta del tipo di relazioni internazionali che preferiscono avere.

Qualora l’annosa, per non dire secolare, questione palestinese, si risolvesse con un riconoscimento di uno Stato indipendente, quali condizioni si prefigurerebbero per le donne palestinesi?

È molto difficile dare una risposta a questa domanda. Ci si può soltanto augurare che un giorno tutte le donne palestinesi si sentano libere e sicure ovunque e che abbiano spazio e voce, d’altronde la qualità di una democrazia si misura anche in base alla presenza di donne nella vita pubblica.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here