I comportamenti a rischio dopo la Pandemia

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di Walter Di Munzio*

Era ora. Draghi ha mantenuto la parola ed ha presentato il cronogramma delle riaperture. Ci voleva molto coraggio e lui ha parlato di “rischio calcolato”, a sottolineare che non si poteva fare altro. Ciò ha scatenato la reazione di molti. Per primo quelle furibonde del virologo Massimo Galli che ha reagito affermando: “Draghi non ne ha azzeccata una. È un disastro”. La stampa di sinistra e quella filo-grillina non l’hanno presa per niente bene, sostenendo che finirà male. La gente non vuol sentire più la parola rischio. Troppa è stata, nell’ultimo anno, la paura ed è ancora lontana la consapevolezza dei limiti dell’esistenza umana per accettare l’idea che il rischio è inevitabile, che è parte integrante della vita stessa. Si rischia sempre. Per un banale giro in automobile, per una partita a calcetto, per l’uso di un antidolorifico o di una banale aspirina. La nostra società onnipotente non vuol più sentire questa parola. Preferisce chiudere gli occhi e illudersi di poterla cancellare per sempre, come se non si potesse vivere senza mai correre rischi. E immediatamente, alle parole del premier, sono scattate alcune reazioni che definire paradossali è poco. Assistiamo a comportamenti nuovi, imprevisti e a reazioni impensabili fino ad appena un anno fa. Per quanti sforzi possiamo fare, verifichiamo il diffondersi di nuovi automatismi comportamentali, che segnano in modo indelebile gli esiti della pandemia sulla nostra vita. Ne elenchiamo alcuni, a mo’ di esempio, ma potremmo segnalarne molti altri:

1.La persistente, quanto immotivata, paura ad uscire, anche se consentito. La paura del virus ha generato, in alcuni particolarmente fragili, una sorta di terrore di ogni tipo di contatto umano. Le persone rifiutano di avvicinarsi a chicchessia. Si tratta di una sorta di “paura del contatto umano” che appare ad alcuni pericoloso, dopo oltre un anno di chiusure e limitazioni della libertà di movimento.

2.Quel senso di angoscia che ci pervade al solo scorgere da lontano un carabiniere, un poliziotto, un vigile urbano, insomma un esponente qualunque delle forze dell’ordine. Una divisa qualsiasi o un posto di blocco fanno immediatamente scattare un gigantesco senso di colpa innescando la paura di poter aver sbagliato qualcosa, di ricevere una punizione o anche un semplice rimprovero. Ciò probabilmente è connesso a tante innocenti piccole trasgressioni fatte in quest’anno di divieti e chiusure, che generano in noi un immediato comportamento di difesa.

3.Un istintivo rifiuto di ogni contatto fisico e, persino, umano. Rifuggiamo non solo dagli assembramenti ma anche da ogni forma di contatto. Ciò avviene spesso con un automatismo comportamentale che non ci sorprende più. La pandemia è stata troppo lunga e ci ha resi più respingenti e chiusi in noi stessi. Un segnale questo dello straordinario stato di depressione collettiva in cui siamo lentamente scivolati.

4.Un rifiuto netto, denso di rischi per le generazioni future, di riprendere alcune attività essenziali, quali la scuola, ma anche attività culturali. Ciò vale non tanto per gli alunni, che richiedono di tornare a scuola per rivedere amici e insegnanti. Ma soprattutto per i genitori e per gli stessi insegnanti che appaiono sempre più spaventati da quei ragazzi, visti come piccoli untori, stessa reazione dagli altri operatori scolastici. Ciò naturalmente è indipendente dall’amore e dalla dedizione per il proprio lavoro che, speriamo, permane anche in queste difficili condizioni. Questo comporterà la crescita di una generazione più ignorante e insicura, ma influenzerà fortemente anche le sicurezze e le conoscenze degli adulti. In quanto disabituati a discutere con gli altri le proprie idee.

5.Stressare atteggiamenti ipocondriaci potrà renderli più credibili anche a noi stessi. Ciò indebolisce lo strutturarsi di un sano senso critico e rischia di rendere le persone più esposte a pregiudizi ed esposte a paure incontenibili di subire malattie nuove e di indebolire la propria prospettiva sociale.

6.Infine, osserviamo il diffondersi di un uso compulsivo di devices, soprattutto di cellulari. Molti sono immersi nei propri telefonini e messaggiano velocemente con chat collettive o singole persone. È purtroppo un surrogato dei ridotti rapporti umani a cui siamo stati indotti, per le limitazioni subite. Speriamo di riuscire a liberarcene presto e che la ripresa possa compiersi pienamente non solo per gli aspetti economici, che sono indubbiamente importanti, ma anche e soprattutto per gli aspetti relazionali. Per poterci riabbracciare senza paura, per poterci di nuovo parlare e articolare discorsi con altri umani senza intolleranze. L’abitudine a discutere in webinar rischia di farci perdere una parte importante del confronto critico, della reale capacità di ascolto, della capacità di ammettere errori e di cambiare idee a seguito del confronto con gli altri.

Uscire da questa infinita pandemia per tornare ad essere più tolleranti e dialoganti, con meno certezze incrollabili, ma con maggiore spirito critico e più responsabilità civile.

*psichiatra e pubblicista

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