Fuori dal tunnel per tornare alla vita

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di Walter Di Munzio*

Ormai è il momento di liberarsi definitivamente di quell’odioso sentimento di depressione e di sconforto che ha caratterizzato questo lungo periodo di crisi pandemica. Potrebbe finalmente tornare il sorriso e l’ottimismo. Ci siamo liberati dei tanti virologi televisivi e dei comunicati angoscianti oltre che delle minacce imperiose di politici e amministratori che ci ricordavano costantemente che il disastro è ancora in corso e che l’allarme non può considerarsi concluso. Insomma siamo un passo avanti ma – attenzione – non completamente fuori dal pericolo, come ci dicono con estrema chiarezza i numerosi piccoli focolai che di volta in volta vengono identificati e circoscritti. Ho ascoltato però, nella mia città, una conferenza pubblica nell’ambito della quale il ricercatore (quasiNobel) prof. Giulio Tarro, presentando il suo nuovo libro sul COVID, ha argomentato della pandemia negandone la virulenza con affermazioni poco scientifiche e molto “politiche”, tese a dimostrare con buona dose tesi ardite quanto irresponsabili che, in fondo, non è accaduto nulla, che il virus non è mai esistito, anzi che nemmeno c’è mai stato, quasi come se la sua diffusione possa essere stata una crudele invenzione giornalistica per spaventare la popolazione o per favorire oscuri interessi commerciali. Sembrava di ascoltare non uno scienziato molto accreditato (quale Tarro indubbiamente è) ma un qualunque terrapiattista o un irresponsabile no-vax. Credo che questi segnali lanciati, fondando sulla propria autorevolezza, siano assolutamente pericolosi e possano favorire comportamenti di sottovalutazione del rischio invalidando anche il lungo e difficile lavoro svolto dalla nostra organizzazione sanitaria. Oggi non sappiano e non possiamo nemmeno lontanamente immaginare cosa sarebbe potuto accadere senza le misure prese dal Governo. Certo il trascorrere del tempo produce effetti quantomeno strani, cancella dalla nostra memoria i periodi vissuti drammaticamente, quando prevalgono sentimenti angosciosi fino al punto di farci credere illusoriamente di non averli mai vissuti, o facendo emergere un’interpretazione dei fatti assolutamente diversa da quanto realmente accaduto. È anche per questo che qualche politico o certa stampa, distorce a posteriori i fatti attribuendo intenzioni che mai sono state presenti nella coscienza collettiva o di chi governa. Mi aspetto sempre e mi sarei aspettato da un così autorevole ricercatore, solo un invito forte a spendere bene le risorse finanziarie ora disponibili per implementare il Servizio Sanitario, soprattutto in una parte del Paese come il Meridione, sempre più deprivato e che ora potrebbe finalmente fare uno scatto in avanti nella direzione di migliorare i servizi territoriali, di reclutare il personale carente, di recuperare l’insopportabile gap dei servizi di queste zone nei confronti del resto del Paese, più ricco e da sempre con grandi risorse da spendere. Così come si potrebbero migliorare tutte le attività domiciliari e i presidi di prevenzione e di protezione sociale, a partire dai servizi di salute mentale, da quelli di gestione delle dipendenze patologiche e dai servizi domiciliari per la gestione delle tante condizioni cliniche post acute, sollevando gli ospedali da quella fase dell’assistenza per delegarla finalmente ai distretti ed alla domiciliarità medica ed infermieristica. Ne esiterebbe una sanità più sostenibile e si eviterebbero finalmente, tra l’altro, proprio quelle tante infezioni ospedaliere che costituiscono il grave effetto collaterale che abbiamo registrato in questi mesi e che sono le possibili conseguenze del sovraffollamento ospedaliero a cui ci ha obbligato e ci obbliga ancora un sistema territoriale carente che ha saputo investire solo per rafforzare la rete ospedaliera e quella componente dell’assistenza che guarda al privato, a danno di un sistema efficace e in grado di garantire al meglio la salute pubblica. È di questi giorni una vivace polemica pubblica sostenuta da gruppi e professionisti autoproclamatisi paladini ed interpreti esclusivi di una applicazione ortodossa della riforma psichiatrica del 1978. Il rischio è che se ne ricavi solo una sterile difesa formale di un dettato legislativo vecchio di oltre 40 anni e che si favorisca, oggettivamente, l’affossamento di ogni sperimentazione organizzativo di un dettato legislativo complesso, ma che non può e non deve essere difeso in quanto tale, ma sviluppato nei suoi principi ispiratori, con esiti visibili e documentabili. Certo anche rischiando qualche inciampo di percorso o incertezza, senza mai far venire meno il sostegno e la condivisione critica proprio da parte di chi dovrebbe avere a cuore lo sviluppo avanzato e connesso ai tempi, della riforma e che dice di voler difendere una riforma epocale da ogni tentativo di restaurazione. Ma che c’entra tutto ciò con questa fase di gestione della pandemia? C’entra molto proprio perché questa pandemia ha dimostrato chiaramente, causando purtroppo migliaia di morti che non bisogna mai perdere di vista la territorializzazione dell’assistenza, che il modello ospedalocentrico non è proprio quello migliore per garantire la salute pubblica, che bisogna sviluppare la prevenzione ed i presidi territoriali e che gli ospedali sono fondamentali se inseriti in una rete, che preveda anche momenti di filtro sul territorio, tali da evitare, di farli diventare focolai di infezione, destinati a fallire miseramente. Non si può dirottare l’emergenza clinica nei reparti ospedalieri, senza prevenzione. Ultima questione la centralità del finanziamento dirottato verso il privato è fonte sempre di cattive pratiche, di interessi speculativi e, spesso, produce tangenti più che buona sanità. Il rapporto pubblico/privato può e deve essere oggetto di ricerca organizzativa avanzata, di integrazione operazionale, di alta specializzazione. Non certamente deve ambire a sostituire il servizio sanitario, che necessariamente deve essere in grado di prevedere anche eventi estremi e poco probabili che quando compaiono possono rivelarsi devastanti sia per la salute pubblica che per l’economia delle comunità che investe. È questa la considerazione che ci permette di dire che l’investimento in territorializzazione, in protezione della comunità, in presidi di prevenzione costituiscono un investimento prezioso e non certo un costo insostenibile.

*Psichiatra e Pubblicista

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