La strage della Galleria Santa Lucia; per non dimenticare

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Il 24 maggio 1999 la tragedia sul convoglio Piacenza-Salerno: morirono 4 tifosi della Salernitana

Ciro, Peppe, Enzo e Simone: i quattro ragazzi morti. Raffaele e Massimo: i due condannati. Gli altri 1500 sopra quel convoglio. I familiari delle vittime, quelli degli incendiari. I macchinisti. I soccorritori. Lo Stato, gli uomini delle istituzioni, quelli dello sport. Sofferenze mischiate a indifferenze, assenze e dimenticanze mescolate dentro banali parole di circostanza. Vite e esistenze legate per sempre a un numero: 1837, il numero del treno speciale che partì dalla stazione di Piacenza alle ore 20.07 del 23 maggio 1999. Destini bruciati e stravolti da quel giorno. Da quando – le 8.23 del 24 maggio 1999 – sbucò in fiamme dalla galleria che immette sulla stazione di Salerno. La galleria Santa Lucia. La santa protettrice degli occhi. Sono trascorsi più di venti anni, eppure nessuno ha mai voluto guardare più in là di quel tunnel, lasciandovi dentro come imprigionate verità e responsabilità. Mai un insegnamento vivo che non fosse invece solo una vuota testimonianza. Sì, questa è un’accusa, è un morso nello stomaco che non si riempie, è un macigno che andava scagliato contro quel muro di omertà e omissioni. Non sapevo, non ricordo, non pensavo, non ho visto, no io proprio dormivo. La tragedia non fu opera solo di chi appiccò materialmente l’incendio al termine di un viaggio lungo 800 chilometri. Ci fu chi lasciò fare, chi si girò dall’altra parte. Un calvario. Un’agonia. Chi viaggiava su quel treno fu ostaggio di balordi violenti e di uomini senza coraggio. Perchè fu pure l’eutanasia di uno Stato che si considera civile. L’incapacità degli uomini delle istituzioni e della società civile che avebbero potuto fermarlo, controllarlo, arrestarne quella folle corsa verso la galleria, il buio, la morte. E se non ci fosse stata la prontezza di due meravigliosi e paterni macchinisti delle Ferrovie dello Stato sarebbe stata una strage. Sì meglio fare nome e cognome perchè bisogna ricordarli e ringraziarli per sempre i veri eroi di questa storia – Carmelo Amico e Mauro Arganti si chiamano – che riuscirono a portar fuori da quel tunnel un treno in fiamme nonostante le ganasce dei freni fumassero perchè per cinque volte qualche balordo aveva azionato il freno d’emergenza.

“Tanto per fare qualcosa”: a metterla solo assieme è una frase che fa venire ancora i brividi. E’ quella che gli inquirenti si sentirono rispondere da chi accese la miccia su un convoglio impazzito, inquieto, incontrollato. Considerato alla stregua di un pacco indesiderato da chi avrebbe dovuto pianificare, vigilare, assicurare. A Piacenza, e poi Bologna, Firenze, Roma Tiburtina, Napoli piazza Garibaldi, Nocera Inferiore. Tutti ad ammassare ragazzi come sopra un carro bestiame a Piacenza, come a liberarsi di un fagotto pieno di stracci. E poi da Bologna in giù tutti a far presto, tutti a chiudere un occhio anzi tutti e due, tutti a sperare che quel treno si allontanasse il più in fretta possibile dai propri binari spostando le ruote bollenti sopra le rotaie di un’altra stazione. Nulla, nemmeno di fronte a un estintore scagliato contro il vetro di un locomotore che ad alta veocità percorreva la direzione opposta nei pressi di Bologna. Nulla. Come togliere la corrente in una stanza, lasciarla al buio, evitare ogni rischio di scossa. Nessuno a prendere sul serio quel treno e nemmeno la propria coscienza, nemmeno un orecchio al disperato grido d’aiuto di quei dodici disgraziati agenti di polizia lasciati in balia su quelle sedici carrozze, ostaggio dei propri superiori prima ancora che dei violenti. Un’opera di rimozione collettiva lo fu fin da subito, come i funerali, come i processi. Come questi lungh, indefiniti, anni. Una corona di fiori, una targa, due parole. Poi stop. Poi proprio nulla. Sul banco degli imputati alla fine rimasero in due. La condanna per reati derubricati, l’affidamento, l’indulto. Vite segnate per sempre. Uno nel 2015 sarebbe tornato dentro per spaccio e detenzione di droga, l’altro ha cambiato sesso. Nessuno però ha pagato per omissioni e scelte sbagliate, nessuno ha scontato e pagato perchè non controllò, perchè non prevenne, perchè non intervenne. Però avere un conto in sospeso con i ricordi è terribile. Tengono sempre accesa la luce, non se ne vanno. Chissà se funziona pure con le colpe e i rimorsi, chissà se qualcuno li prova ancora. La verità storica e la verità processuale: dopo più di venti anni, cosa resta? “Si trova in una condizione necessariamente migliore per giudicare chi ha ascoltato le ragioni opposte come in un processo”, scriveva Aristotele.

(Michele Spiezia da storieesport.it)

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