L’ora delle mamme

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di Anna Lucia Esposito

È un periodo difficile per tutti. Per qualche categoria, però, un po’ di più. I primi che vengono alla mente, coloro che sono in prima linea dall’inizio della pandemia, sono senza ombra di dubbio medici, infermieri e in generale tutto il personale sanitario. Figurarsi poi chi lavora in un reparto Covid e a casa ha un bambino. Oggi per questa nuova rubrica dedicata al mondo delle mamme, abbiamo chiacchierato con un giovane medico che lavora in un reparto Covid del napoletano.

Dottoressa, innanzitutto, riesce a conciliare il lavoro di madre con un lavoro come il suo che impegna tante ore ed emotivamente il resto della giornata?
Cerco di moltiplicare la quantità di tempo che trascorro con lui, con la qualità, facendo giochi, raccontando fiabe, ballando e cantando, facendo insomma tutte quelle attività che possono consolidare il nostro rapporto.

Pensa che un lavoro come il suo influenzi la sua vita a casa?
Anche se può essere complesso, provo a staccare “emotivamente”, così che l’unica influenza concreta siano soltanto i turni lavorativi in base ai quali organizzo la mia vita di mamma.

Racconta al suo bambino del lavoro?
Non avendo ancora compiuto due anni, non occorre entrare nel dettaglio. Gli spiego che la mamma tornerà appena possibile e che, nel frattempo, lui sarà in compagnia del papà o dei nonni senza i quali sarebbe molto difficile.

Riesce a non fargli percepire che il suo lavoro si è “complicato” ulteriormente?
Di certo percepisce che sto più tempo fuori casa.

Qual è la difficoltà maggiore del suo lavoro? Più fisica o più emotiva?
In questo momento storico entrambe perché la stanchezza emotiva legata agli eventi si ripercuote anche sul fisico. Mentre in un reparto di medicina o in ambulatorio puoi confrontarti in maniera diretta con i pazienti e i parenti, in un reparto Covid si entra in contatto con la sofferenza fisica ma soprattutto con la paura di morire in solitudine. Ad esempio, la gestione telefonica delle informazioni: è complicatissimo spiegare a un parente che “non vede” l’ammalato, quindi è ancora più in ansia, lo stato di salute di un paziente, soprattutto se sai che ha poche possibilità di sopravvivere. Senza poi dimenticare che tutti noi del personale sanitario siamo coperti da capo a piedi. Durante il turno lavorativo è quasi impossibile bere o andare in bagno.

A distanza di un anno, siamo nuovamente in piena emergenza. Crede ancora che l’unica soluzione possibile sia un nuovo lockdown?
Queste sono scelte affidate innanzitutto a chi ci governa. Da medico posso solo dire che è necessaria grande responsabilità da parte di tutti nel rispetto delle regole che vengono proposte. Purtroppo siamo di nuovo in una fase critica.

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